Barbablù mi dava i brividi quando ero bambina. Dovevo farmi forza per rileggere la storia, ero letteralmente terrorizzata dalla perfidia del protagonista. Eppure nel mondo delle fiabe non mancano certo gli orchi assassini. A cominciare dal tremendo avversario di Pollicino che finisce per sgozzare tragicamente le sue figliole pensando di far fuori il minuscolo ma fantasioso protagonista della storia e i suoi fratelli. Ma io avevo più paura di Barbablù e della sua brutalità nei confronti della moglie,anche se già sapevo che sarebbe finito male. Adesso, ovviamente, mi colpisce di più l’inettitudine della sposa che messa alle strette implora il perdono del marito tradito, e poi, davanti alla sua durezza di cuore, accetta la punizione pattuita (morte) e chiede solo un po’ di tempo per prepararsi a rendere l’anima a Dio. Mi colpisce che non abbia tentato la fuga e che si ostini a sperare fino all’ultimo di ottenere pietà da quel bruto.
Peggio ancora: la poveretta non è un caso isolato. Altre donne hanno ceduto alle lusinghe di Barbablù anche se non potevano ignorare quanto fosse pericoloso.
Mi pare anche ben strano l’atteggiamento della sorella, Anna, che la povera peccatrice invia sulle torre a scrutare l’orizzonte in attesa dei fratelli che potrebbero salvarla. E se invece di attendere la salvezza per mano dei fratelli, le due donne cercassero di reagire in qualche modo? Potrebbero almeno barricarsi in una stanza o correre incontro ai due soldati, un dragone e un moschettiere, per farsi proteggere da loro. O, ancora, difendersi dal mostro in qualche modo. Ma la sposa infedele (che nella fiaba non ha nome, a ribadire che è un personaggio emblematico di tante mogli vittime di uomini violenti) è ormai votata al suo destino e dunque, piangendo, attende la sua ora. Fatto sta che questa cieca sottomissione caratterizza anche un immenso numero di donne che restano accanto ai mariti a dispetto delle punizioni certe, anzi scontate.
Eppure questi uomini crudeli, meschini predatori che individuano le loro vittime, sono fragili di loro. In effetti nella favola, quando arrivano finalmente i fratelli, Barbablù ha già il coltello alla gola della moglie, ma molla tutto, spaventato, e cerca di fuggire senza neppure accennare a un minimo resistenza. Il mostro si rivela per quello che è: un debole assoluto, un vigliacco che comanda e terrorizza chi è più debole di lui, ma non osa combattere da uomo e piuttosto si lascia passare da parte dalle spade dei fratelli. Sarebbe questa la reazione dei moderni Barbablù messi alle strette da parenti e difensori delle loro vittime?
La fiaba, a vederla così, si presta bene alle diverse interpretazioni non solo di esperti, ma anche di artisti. Offenbach, il compositore che ci ha lasciato il can can, ne trasse ispirazione per una fiaba grottesca in cui Barbablù è uno smidollato don Giovanni di provincia e le mogli sono smaliziate odalische. Maeterlinck le offrì altri sviluppi mettendo Barbablù a confronto con l’Arianna mitologica che, tra l’altro, aveva una certa pratica di mostri essendosela già vista con il Minotauro. Nella storia, poi trasformata in opera da Dukas, Arianna ritrova le mogli precedenti ancora vive, benché prigioniere, e cerca di liberarle. Ma queste rifiutano di lasciare carcere e carceriere. Anche questa è una risposta comune a tante donne d’oggi, vittime di violenza. Sicché, alla fine, Arianna deve andarsene abbandonando le donne che l’hanno preceduta, accompagnata dalla fedele nutrice.
L’opera di Dukas – che è del 1899 – precede di poco l’atto unico messo in musica da Bela Bartok (su testi di Bela Balazs) intitolato Il castello del duca Barbablù (Kékszakallu herceg vara). Qui la moglie, Judit, è innamorata e giudiziosa. Ha sposato il suo duca contro il parere di tutta la famiglia, ed è decisa a salvare Barbablù da un passato che evidentemente lo assilla. In questa versione della favola, Judit non si intrufola di nascosto nella stanza segreta del castello, ma induce Barbablù ad aprirle una porta dopo l’altra, e scopre con sconcerto che i muri del castello sono sporchi di sangue, a significare il rapporto malato dell’uomo con il resto del mondo. Anche in questa storia le mogli precedenti (tre) non sono morte, ma vivono prigioniere e simboleggiano il mattino, mezzogiorno e sera. Judit finisce per unirsi loro, diventando la moglie della notte. A significare che l’amore è sempre una prigione,
Tutt’altra storia nel Barbablù di Amélie Nothomb (Voland, 2013). Qui Saturnine si lascia attirare da una fantastica offerta di alloggio nel centro di Parigi. L’unico neo è che le donne che l’hanno preceduta sono misteriosamente scomparse. Saturnine, curiosa e audace, accetta la sfida e si trova davanti a un grande di Spagna, don Elemirio Nibal y Milcar che vive come un recluso da vent’anni ma desidera la compagnia di donne belle a affascinanti. Il raffinato nobile cucina per diletto delizie paradisiache e cuce abiti stupendi con stoffe dai colori meravigliosi. Permette a Saturnine di muoversi liberamente nella sua casa, ma non deve violare la camera oscura che custodisce il suo segreto. Un’eventuale trasgressione le costerebbe una punizione severa. Lui si giustifica dicendo che ogni uomo ha il diritto di avere un segreto. Affascinata ma imperterrita, la donna lo accusa di omicidio e gli rinfaccia il piacere sadico che deve avere provato punendo le otto affittuarie. Eppure scopre di amare il mostro, di quello strano amore che le donne hanno per i criminali. E si rimprovera, a ragione, di essere una sciocca come le altre. Il confronto di sapore teatrale ha un finale a sorpresa. Saturnine si rivela più forte di Barbablù, anche se non è detto che la sua vittoria sia piena. Amélie Nothomb rovescia la fiaba confermando il suo gusto per il paradosso. Forse non è la conclusione migliore e di certo non sarà l’unica possibile. Dopo 300 e più anni Barbablù non ha ancora esaurito le sue risorse. E merita ancora più d’una riflessione. Per il momento mi fermo qui. E chiudo.