Ieri ho lavorato alla promozione del mio nuovo libro con Giorgio Bozzo, il mio (tra le altre cose) sempre paziente e generoso maestro di blog. La preziosa esperienza è diventata una utile lezione di vita.
La mia ammirazione per i molti che dominano la tecnologia del web è cresciuta in modo esponenziale. Allo stesso tempo è aumentata anche la mia stima per gli attori. Sembra facile, ma per arrivare a 50 secondi decenti di video ho dovuto ripetere otto volte la mia storiella e il risultato non è poi ‘sta cosa.
E ripensando all’intenso pomeriggio di tentativi, scoperte, cancellazioni, rifacimenti, ho scoperto di avere dimenticato l’elemento forse più importante di tutto questo ambaradan. E cioè il fatto che tutte le storie raccolte nel libro sono testimonianze di sopravvissuti alla Shoah e ai molti drammi del Novecento, legate insieme in formato romanzo con l’obiettivo di creare un documento storico. Eppure questo è un punto che mi preme tanto e che giustifica il mio ritorno al tema conduttore de La promessa del tramonto, la saga dei miei genitori – lui ebreo ungherese, lei italiana cattolica – legato da un amore più forte dell’odio intorno a loro. È su questo sogno che si basano due anni di lavoro, portati avanti con l’affettuoso coinvolgimento di famigliari e amici, e le fatiche di questi giorni. A cominciare dall’impegno a reperire spazi per nuove presentazioni, a scrivere note su Facebook e persino lo sforzo di lanciare dei video dei quali francamente non mi sento all’altezza.
Chiedo scusa se le mie parole hanno un suono troppo solenne. Il fatto è che i protagonisti/vittime della tragedia che abbiamo superato stanno uscendo di scena per motivi anagrafici. Io posso però riferire quello che ho raccolto vivendo con loro. E mi sembra giusto – anzi, doveroso – farlo mentre scetticismo, cinismo, negazionismo spuntano ogni dove. A tradire la memoria. Perché dobbiamo ricordare il passato per esorcizzarlo. Perché non torni mai più. In nessuna forma.