Pur avendo superato i limiti d’età dell’educatrice tipo – anche se forse non si smette mai di educare e, soprattutto, educarsi – sono irresistibilmente attratta dai libri che insegnano alle madri l’arte di educare le figlie.
L’anno scorso Chimamanda Ngozi Adichie mi ha affascinato con Cara Ijeawele, Quindici consigli per crescere una figlia femminista (Einaudi). A dispetto del nome impronunciabile per noi provinciali europei, la femminista nigeriana che è pure cittadina americana, offre consigli assolutamente pacati e di buon senso. Alla figlia dice dunque: non considerare il matrimonio una conquista; non definirti solo in termini di maternità; non dire mai a tua figlia di fare (o non fare) una certa cosa perché è femmina; insegnale a essere fiera delle proprie origini… e via discorrendo. Cose evidenti, soprattutto quest’ultima che dovrebbe essere lo slogan d’elezione di ogni emigrata di fatto e di cuore. Chimamanda deve averlo imparato sulla sua pelle. Sulla falsariga dei Quindici consigli trovo ora gli “appunti per crescere una figlia” proposti da Annalisa Monfreda, direttrice di Donna Moderna. Il libro si intitola Come se tu non fossi femmina (Mondadori). E già dal titolo si capisce il proposito più importante, quello di fare vivere una ragazza senza che si senta costretta a portare la tediosa etichetta “donna”. Posto che donna voglia dire vocazione al sacrificio, nonché rinuncia all’autonomia, assieme a professioni e sport maschili, a una impronta di rigore e lucidità che attraverso i secoli la tradizione ha costantemente tentato di negare al cosiddetto sesso debole.
Il libro di Monfreda, proposto come l’avventura on the road di una madre con due figlie di sei e nove anni, ha molti aspetti interessanti e figuriamoci se me lo perdevo. Rinuncio anche a osservare che su certi dettagli non sono tanto d’accordo anche perché partecipo alla corsa pedagogica considerandomi ampiamente fuori gioco. Qui vorrei rilevare un solo, non insignificante dettaglio, e cioè che buona parte di questi consigli femministi sono già apparsi in un libro, ahimè antichissimo, della protofemminista inglese Mary Astell. Si intitolava Some reflections upon marriage ed è apparso nel 1700. Astell voleva che le ragazze non fossero automaticamente consegnate al matrimonio e chiedeva che avessero il diritto/dovere di studiare – cosa che ai suoi tempo non veniva con il pretesto che la fragile mente delle fanciulle non avrebbe retto allo stress.
A distanza di tre secoli e passa stiamo ancora cercando di costruire la donna nuova, all’altezza dei tempi, con argomenti molto simili. E non la vogliamo donna piena come predicava la Astell agli albori della coscienza femminista. Ora ci sta a cuore un’altra cosa. Un ibrido “non femmina” distante dalla versione originale, troppo vicina alla Pandora del mito greco cui il genere umano dovrebbe tutte le sue disgrazie. O anche alla Eva biblica che ci ha tirato addosso un mare di guai. E perché – domando io – non vogliamo la donna del 3.000 “più femmina” con la consapevolezza piena delle qualità di eclettismo e coraggio che troppo spesso restano nascoste?