Dacia Maraini si rifà con passione e competenza a un’arcaica cultura del possesso commentando sul “Correre della sera” (26 agosto 2014) gli ultimi fatti di violenza nei confronti di donne e bambini. Maraini mette in luce una piaga diffusa, e al discorso aggiunge altri fattori di grande importanza come la fragilità di certi maschile che mal sopportano l’emancipazione femminile. Ma è proprio questa arcaica cultura del possesso che complica le cose con le sue radici profonde. Basta pensare che ci accompagna da oltre 10 mila anni per capire che il suo imprinting è profondo al punto da essere entrato nel dna umano. Le spiegazioni di antropologi, sociologi e archeologi attenti a queste tematiche sono molto stimolanti quando mettono in luce il lento e deleterio degrado dei rapporti da un’era di pacifica convivenza tra uomini e donne, in cui si riconosceva anzi il ruolo prominente della maternità ai fini del mantenimento della vita sulla terra, a uno stato di lotta di gran lunga peggiore di quello attuale, in cui la vita di una donna sembrava valere meno della vita di una mucca. I ragionamenti seguono però strade diverse. C’è chi punta all’invasione di popoli indoeuropei guerrieri per natura, che ovviamente consideravano gli uomini (guerrieri) superiori alle donne (troppo spesso inabili all’uso delle armi per le incombenze familiari). Questi popoli invasori avrebbero imposto la loro cultura di lotta sradicando l’originaria parità tra i sessi, e sostituendo la primigenia Dea Madre con i loro dei guerrieri. In questo senso si considera un’aggravante l’avvento dell’agricoltura, ricordando che al tempo dei popoli cercatori-cacciatori, gli uomini andavano a caccia con chiunque, amici, parte del clan o estranei, ma una volta varato il principio del possesso di un campo, avevano tutto l’interesse a lasciare le loro proprietà a un consanguineo. Ecco allora che si sentivano giustificati a mettere sotto chiave le loro donne per impedire che, cedendo a una tentazione, immettessero nella famiglia il figlio di un estraneo.
Siamo tra storia, confermata da reperti archeologici e antropologici, e mito. L’originaria coesistenza pacifica dei sessi può sembrare una favola, soprattutto ai molti che seguendo Hobbes ne accettano il cinico detto homo homini lupus. Cui gli studiosi della “non violenza” replicano che l’aggressività non è parte integrante della natura umana, ma un incidente di percorso dovuto a problemi strutturali, perché l’umanità ha avuto bisogno del massimo di cooperazione per restare in vita, e i primi clan ben conoscevano il valore della solidarietà. Tra l’altro, se i cacciatori portavano a casa preziose proteine (carne), la caccia non andava sempre a buon fine e le famiglie vivevano perlopiù delle bacche e delle piante che donne e bambini raccoglievano, o dei piccoli animali di cui riuscivano a impadronirsi, che fossero vivi o morti. Quindi la sopravvivenza della specie dipendeva più dalle donne che dagli uomini, e tanto bastava per ribadire la loro importanza. Fu poi l’agricoltura a modificare anche questo equilibrio, offrendo preziose fonti di nutrimento con i prodotti dei campi e gli animali addomesticati. Insomma, il cosiddetto progresso ha portato conseguenze meno che gradite.
Pensare a questo passato remoto risulta utile per comprendere quanto sia radicato nei nostri genti la sensazione che la donna “appartenga” all’uomo e debba essergli sottomessa. E quanto risulti difficile sradicarla. Ma qualcosa si può e si deve fare per risalire la china. Se n’è parlato oggi a “Punti di vista” lo show condotta da Irene Zerbini su Radio24.
A posteriori, ahimé, mi vengono in mente alcuni punti che potrebbero essere interessanti. Partirò da qui nel prossimo ciclo di incontri con le scuole.
1. La premessa è che siamo in qualche modo vittime di un errore storico gigantesco, quindi non è ammissibile parlare di colpevoli e vittime per scaricare le responsabilità.
2. Accettare la responsabilità dei genitori nella trasmissione di valori errati. Prestare attenzione alle madri che la danno troppo spesso vinta ai figli e criticano le figlie quasi costringendole a seguire la loro vecchia strategia, ma occhi anche ai padri che ignorano le figlie e incoraggiano i maschi a essere veramente maschi.
3. Correggere il messaggio primario delle favole che vogliono le ragazze sottomesse e ansiose di obbedire ai loro partner. Non si potrà rinunciare a raccontarle, ma sarà opportuno evidenziare che sono per l’appunto favole da prendere con le pinze e non verità di fede. Esempio: l’errore de La Sirenetta di Andersen che rinnega la sua natura marina e rinuncia alla voce (strumenti prezioso di comunicazione) per conquistare il suo principe. Ovviamente incorrendo in un fallimento totale.
4. Ribellarsi agli stereotipi che vogliono la donna debole e l’uomo forte e condannano la donna come uterina e nervosa se va al sua meta con foga. (Ma impongono anche all’uomo di non piangere, di mostrarsi forte e consapevole della propria virilità).
5. Far capire che le donne possono intraprendere anche carriere maschili se non si lasciano intimidire, e che il rovesciamento di ruoli vale anche per gli uomini.
6. Inculcare rispetto del prossimo a bambini e bambine fin dalla più tenera età. Far quadrato intorno alla libertà di ciascuno.
7. Ribadire che usare aggressività in un litigio/discussione è sempre sbagliato, che sia il maschio a farlo o la femmina. Cercare strumento alternativi per arrivare alla soluzione dei problemi.
8. Dare alla famiglia un significato diverso di cooperazione e collaborazione eliminando il concetto di sudditanza.
9. Riflettere su matrimonio e amore: fino a che punto è realistico il matrimonio borghese inventato nell’Ottocento che vuole la donna moglie, madre, casalinga perfetta e le attribuisce ora anche un ruolo nel mondo del lavoro?
10. Rivedere le aspettative su matrimonio e lavoro lasciando ampio spazio alla collaborazione tra partner in tutti i campi.
11. Far spazio a famiglie “diverse”.
12. Far sì che la società tutta (dalla scuola alla polizia e alla magistratura) condanni ogni forma di violenza.
13. Insegnare ai ragazzi che seguire le regole è importante, ma che ognuno di noi risponde alla propria coscienza e può dunque mettere in discussione il concetto d’autorità.
14. Ripromettersi di fare ognuno la propria parte per instaurare una società nuova, all’insegna del rispetto e di una cultura rinnovata.
15. Contribuire alla cultura nuova come soggetti attivi (creativi) o riceventi appassionati, sempre più convinti che un cambiamento culturale è alla base di una società più giusta che potrà essere in gradi di garantire una convivenza più armoniosa. Se non subito, entro tempi ragionevoli in un futuro cioè non troppo lontano.