Fino a poco tempo fa non riuscivo a capire gli scrittori pronti a usare uno pseudonimo per pubblicare le loro opere. Mi sono sempre chiese se giocare a nascondino con media e pubblico potrebbe davvero aiutare le vendite o se, piuttosto, complicherebbe le cose all’inverosimile. Certo, dopo il caso Ferrante bisogna ricredersi: la caccia alla gentile signora – che potrebbe essere un signore barbuto o un gruppo di scrittori – sta appassionando mezzo mondo, anche perché l’autrice o autore che sia si ostina a restare nell’ombra. Fatto sta che Ferrante piace, e tanto, perfino negli Usa, un territorio impenetrabile per scrittori europei e più ancora per gli italiani. Ma quanto dipende dal nome e quanto dalle sue storie? Opterei per la seconda, ma è tutto da dimostrare.
La tentazione di imitare il caso Ferrante ha toccato anche il bravo e serissimo Alessandro Perissinotto che – con l’ovvia complicità del suo editore – ha ripreso a scrivere gialli ambientati in Estonia nascondendosi dietro il nome Arno Saar. Le sue ambientazioni sono talmente credibili – così si dice e io riferisco, non conoscendo l’Estonia – che i suoi gialli anno scalato la lista dei libri più venduti nel Paese anche se gli estoni sapevano perfettamente che dietro ad Arno Saar si nascondeva un autore italiano. In Italia si è rivelato dopo il primo successo. «Speravo che il gioco durasse di più, invece sono stato smascherato subito, ma va bene così», ha detto il nostro non senza un sorriso soddisfatto.
Di pseudonimi si occupa ora Mario Baudino in Lei non sa chi sono io (Bompiani), sviscerando con bravura la secolare questione. In effetti hanno scelto di usare pseudonimi celebrità come il grande Voltaire che usò decine di nomi diversi nel corso della sua sfolgorante carriera anche per evitare gli strali della censura. Altri – vedi Joseph Conrad, all’anagrafe Jozef Konrad Korzeniowski – decisero di accantonare il proprio nome per essere più facilmente reperibili. Lo stesso vale per Pablo Neruda che si chiamava Ricardo Neftali Reyes Basoalto. Nel campo degli pseudonimi si riconoscono fenomeni di “duplicazione” – il reverendo Charles Ludwidge Dodgson scriveva testi di matematica con il suo vero nome mentre si travestiva da Lewis Carroll quando scriveva per ragazzi capolavori come Alice nel paese delle meraviglie. Molti dovettero nascondersi per sfuggire alle persecuzioni. Così l’ebrea antifascista Natalia Ginzburg, una fra i tanti, pubblicò nel 1942 con il nome di Alessandra Tornimparte. Ma ci fu chi – come Doris Lessing – che usò lo pseudonimo per dimostrare che il sistema editoriale si ferma al nome senza approfondire i contenuti. A conferma della sua tesi, i i libri che scrisse come Jane Sommers caddero in un vuoto pneumatico da cui uscirono solo quando si seppe che venivano dalla sua penna/computer. Lo stesso vale per la Rowling di Harry Potter, del tutto ignorata quando pubblicò il primo giallo (Il richiamo del cuculo) come Robert Galbraith. Il libro ebbe buone recensioni ma in tre mesi (cito dal sito de La Repubblica) vendette 1500 copie. Poi il Sunday Times annunciò al mondo che Galbraith era in realtà la Rowling, e le vendite si centuplicarono nello spazio di un mattino. Tra gioco, sfida, necessità, prova estrema, duplicazione e altre sfaccettature psicologiche, il mondo degli pseudonimi apre ai lettori – grazie a Baudino – i suoi fascinosi segreti.