Comincio il viaggio con la mia “Ragazza” con una presentazione alla Biblioteca di Rozzano, proprio il giorno in cui i giornali mettono in gran risalto l’infame scritta – Juden hier, ebrei qui – sulla casa di Mondovì nella quale abitava Lidia Rolfi, internata a Ravensbruck nel giugno 1943 come prigioniera politica. Non ebrea, come l’infame scritta sulla sua porta la definisce, ma staffetta partigiana. Le perentorie parole in tedesco riportano alla memoria gli orrori del Reich. Anche perché, con triste sincronismo, scritte antisemite sono apparse sulle pareti di una sede scout a Noto. Nord e Sud nella stessa rete, dunque. Il ricordo di una partigiana morta nel 1996 e il presente di ragazzi che si preparano ad affrontare la vita.
Per quanto riguarda Lidia Rolfi: al lager arrivarono 102 mila donne. Ne morirono 92 Milla. Lidia stessa pesava 32 chili quando tornò a casa. Fu operata all’anca, rimase ingessata dal seno ai piedi per sette mesi, ma riprese le forze e cominciò a raccontare quello che aveva vissuto. «Si ritrovò sola», ricorda il figlio che vive ancora in quella casa. «Fu creduta a stento, provò vergogna». Condivise il destino degli ebrei e oggi viene trattata come tale, in un’atmosfera di antisemitismo strisciante. Secondo i dati elaborati da Vox-Osservatorio sui diritti, negli ultimi due mesi del 2019 i post antisemiti piazzati sui social furono 63.224. E ancora: nel 2014 i tweet contro gli ebrei erano lo 0,5 del totale. Ora sono il 24,81. In linea – peraltro- con le statistiche europee in base alle quali un europeo du quattro si dichiara antisemita, con quote in aumento in Polonia e Ucraina, ma anche in Italia.
Ripenso a questi dati alla vigilia delle combattute regionali in Emilia-Romagna e Calabria che certo non hanno rasserenato il clima politico motivando anzi attacchi alla minoranza più debole della popolazione (o alle minoranza). Dopo tutto la retorica elettorale si nutre di nemici immaginari. Dove ci lascia tutto questo? “Non possiamo dirci innocenti” è la tesi che Ezio Mauro espone nell’editoriale della Repubblica che apre scenari inquietanti con parole da brivido: “stiamo scendendo nell’abisso senza sapere dove arriveremo, fino a quando cammineremo nel buio”.
È il viatico triste – ma efficace – per il cammino de La ragazza con il cappotto rosso. Il mio libro di storie all’ombra della Storia sulla Shoah, sulla fuga dall’orrore, sulla determinazione feroce di aggrapparsi alla vita, sulla speranza di costruire un futuro migliore. Che non può – non deve – essere questo.