È una prosa generosa, accattivante, vibrante di pietà ma non priva di autoironia, quella che Edna O’Brien esplora nell’autobiografia sapientemente sospesa tra lacrime e sorrisi, ben lontana dal rigore minimalista dell’Io sono nata di Margaret Atwood, tutto teso a tagliare, cancellare, abolire. O’ Brien, invece, ama ricordare e parla di tutto con sincerità crudele fino alla spasimo. Miseria e nobiltà della casa natale, i vezzi di mamma e le fragilità di papà, gli inganni del fratello, i sogni, le premonizioni, i libri belli e quelli più dozzinali che leggeva da bambina con trasporto e talvolta con vergogna. Racconta dei goffi tentativi di perdere la verginità, portati finalmente a compimento con gioioso sollievo. Racconta perfino, con grande grinta, lo scandaloso amore per una monaca del convitto cui i genitori l’avevano affidata sobbarcandosi una retta decisamente eccessiva, date le loro magri risorse. Amore a quanto pare ricambiato, con drammatiche conseguenze, anche se sperimentato solo per brividi di desiderio e sogni, mai realizzato dal vivo. Comunque un racconto che sconvolge la cattolicissima Irlanda nel 1960, quando O’Brien dà alle stampe il suo primo romanzo – Ragazze di campagna – prontamente messo al bando da indignati censori che lo considerano una sorta di tradimento.
Nella sua autobiografia, che è insieme impietosa autoanalisi e determinazione a puntualizzare pecche e passi falsi, ma anche orgoglioso riconoscimento dei progressi fatti grazie alla scrittura (anch’essa iniziata in tono minore su un giornaletto senza ambizioni culturali), Edna O’ Brien fa molto più che svelare la propria vita. La sua analisi delle frontiere pre-femministe, cariche di pregiudizi e pudori, ci costringe a riflettere sul molto che noi donne abbiamo conquistato (e facilmente possiamo perdere) e sugli errori del passato. Assieme alle suggestive pagine sull’incontro fatale con il primo marito, Ernest Gébler, la fuga dalla famiglia, lo scontro con genitori e fratelli che volevano richiuderla in manicomio perché bisognava essere proprio pazzi per vivere nel peccato con uno scriteriato come Gébler (fosse stato un altro non avrebbe cambiato la situazione). Il ricorso al manicomio era, per altro, uno dei metodi più usati per imbavagliare le donne ribelli.
Dribblato fortunatamente il manicomio, resta la trappola di un amore sbagliato. È ben chiaro a chi legge che le cose tra Edna ed Ernest si metteranno male. Il peggio inizia quando Ernest, convinto di avere sposato una donna sciocca e priva di volontà, è costretto a riconoscere con indignazione sempre più profonda che la moglie sa scrivere e lo fa bene, che è apprezzata, che guadagna più di lui. A conti fatti, una sorta di tradimento. Ma per quanto il marito-carceriere costringa la moglie a cedergli i suoi guadagni e le centellini il denaro che va guadagnando, non riesce a piegare la sua crescente sete di autonomia. Fino a quando, rompendo gli indugi, Edna fugge con i figli. Una scelta amara che aprirà tre anni di battaglie per la custodia dei ragazzi eccetera eccetera.
Edna O’Brien prende le distanze, scrive sforzandosi di vedere i fatti nell’ottica di un osservatore esterno, obiettivo per quanto possibile. Uno sforzo che, aggiunto ai preziosi cammei frutto delle sue frequentazioni nel mondo del cinema (per il quale comincia presto a lavorare) e della letteratura, aumenta il fascino della sua autobiografia offrendoci ritratti non convenzionali di attori popolari come Sean Connery e Richard Burton, Jane Fonda e Roger Vadim, e scrittori come Marguerite Duras, Samuel Beckett e Peter Brook:sole per citarne alcuni. (Country girl, traduzione Cosetta Cavallante, editore elliot).