Una nonna, Rose, malata di Alzheimer con un segreto protetto troppo a lungo. Una figlia morta troppo presto, che ha lasciato ricordi non sempre belli. Una nipote, Hope, reduce da un divorzio catastrofico, che contraddice il suo nome (speranza) perché si sente arrivata al capolinea. A 36 anni si sente vecchia per l’amore e dispera di intendersi con la figlia adolescente. Quattro generazioni di donne interessate alla pasticceria che riprende un’antica tradizione di famiglia. E a monte di tutto un segreto che brucia. Forse più d’uno. Sono questi gli ingredienti di Finchè le stelle saranno in cielo (Garzanti) debutto italiano di Kristin Harmel che ha già pubblicato diversi best seller negli states ma da noi era sconosciuta. Si è tuttavia rapidamente posizionata nella lista dei best seller nostrani grazie al benefico influsso di temi allettanti (cucina, amore, solidarietà capace di fermare la persecuzione degli ebrei) manovrati con la giusta posologia per toccare la sensibilità dei lettori (o più probabilmente lettrici). Che si il risultato di un’astuta tecnica o il frutto di un autentico impegno, Harmel arriva alla meta commuovendo e coinvolgendo con la grazia della sua storia e il pathos dei suoi personaggi.
«Sognavo di scrivere un romanzo su un amore perduto settant’anni fa» mi ha detto quando l’ho incontrata durante una sua breve visita a Milano. «Il mondo dei sentimenti mi affascina e lavorando per il settimanale americano People l’ho sviscerato raccogliendo le storie di decine di persone. In questo caso, però, la love story si è rivelata solo il punto di partenza di un intreccio più complesso che mi ha condotto a un episodio poco noto della shoah. Al fatto, cioè, che la Grande Moschea di Parigi offrì asilo e aiuto a centinaia di ebrei salvandoli da morte sicura».
D. Com’è nato il suo interesse per la shoah?
R. «Mi ha molto colpita, da bambina, a storia di Anna Frank e ho letto molto sulle persecuzioni razziali. Mi è capitato, da giornalista, di incontrare alcuni sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti. Il mio interesse è cresciuto quando, a vent’anni, ho scoperto che il padre di mio padre non era cattolico come credevo, ma ebreo».
D. Insomma, il suo romanzo rispecchia un poco l’atteggiamento di suo nonno?
R. «Sì. Anche la mia Rose, la nonna, è una ebrea che ha sempre nascosto le sue origini. Ormai vecchia e malata, esce per pochi minuti dal buio dell’Alzheimer e lascia trapelare che non è cattolica come ha sempre detto, ma ebrea. È fuggita da Parigi durante uno dei momenti più bui della persecuzione e ha vissuto nella menzogna, con un nome di fantasia e documenti falsi, con il dolore di avere perso l’uomo che amava alla follia e che l’ha salvata dal destino di essere chiusa in un lager nazista con il resto della sua famiglia».
D. E qui comincia una sorta di giallo sentimentale. Com’è arrivata a far ammalare il suo personaggio di Alzheimer? R. «Ho una conoscenza diretta di questa malattia, purtroppo. Ne soffre la madre di mia madre e io l’ho seguito da vicino, con grande dolore, mentre perdeva la memoria e o la facoltà di riconoscere i nostri volti. Nel libro, però, la malattia ha un rilievo simbolico: già prima di ammalarsi Rose ha cercato di cancellare il suo passato di ebrea e ha soffocato il suo grande amore pensando di poter vivere più serena e leggera. Ma alla fine sarà un barlume di ricordo a salvarla».
D. Mi diceva di avere scoperto, quasi per caso, l’aiuto che i musulmani francesi diedero agli ebrei al tempo delle atrocità naziste: come ci è arrivata?
R. «Durante un soggiorno di studio a Parigi ho visitato il centro ebraico e ho parlato a lungo con diversi testimoni. Sono stati loro a parlare del sostegno ricevuto dalla Grande Moschea parigina grazie alla tradizione del besa. Questo significa che quando un musulmano si trova davanti a una richiesta d’aiuto, deve esaudirla in nome di Dio. È un messaggio importante: oggi si tende pensare che musulmani ed ebrei non possono intendersi, ma non è necessariamente così».
D. Bella l’idea della pasticceria come cornice della storia…
R. «È anche un modo per dire che cucina e vita sono strettamente legate. Non a caso ho aggiunto al testo anche diverse ricette».
D. Nella scrittura conta più il cuore o la testa?
R. «Io li metterei alla pari. Senza cuore le parole sono pietre, senza testa la storia non sta in piedi. Per quanto mi concerne, ho scritto il mio libro col cuore, in otto mesi, ma ho studiato i dettagli per anni e scrivendo mi sono sforzata di rispettare la logica».