Credevo – povera illusa – di essere esente da invidia. Nel passato mi sono rallegrata dei successi delle mie amiche come se fossero stati miei, e ho guardato le conquiste degli altri con un senso di benevolo distacco. Eppure sono bastati due libri per capire quanto mi sbagliavo.
Il primo – Planimetria di una famiglia felice – di Lia Piano, figlia dell’architetto, mi ha commosso e fatto sorridere a più riprese. «Che vita interessante» mi sono detta. Non ancora con invidia, ma sicuramente con ammirazione. E guarda, ho pensato, il garbo del racconto. Quella lievità gioiosa che ti prende il cuore. Ora però mi sono messa meglio a fuoco. A distanza di molti mesi, infatti, sto leggendo una secondo autobiografia Io e l’asino mio – Storie dei Crepax raccontate da Valentina Crepax (il fatto che entrambi i libri siano pubblicati da Bompiani è una fortunata coincidenza) – e buco la siepe dell’invidia scoprendomi in una storia tra genio e un pizzico di gradevole follia, condita con massicce dosi di ironia e autoironia.
I problemi della signora Crepax nascono da un equivoco non proprio piacevole considerando che lo zio Guido Crepax (fratello di suo padre, il discografico Franco Crepax) ha dato al personaggio dei suoi fumetti il suo nome e cioè Valentina. Creando così una curiosa sovrapposizione tra vita vera e narrazione disegnata. Che le due donne (quella di carne e quella di carta) fisicamente non si assomiglino quasi per niente ha poca importanza. Il pasticcio è completo. E delizioso. Messo in tavola con il contorno delle vite di altri Crepax e Crepas (una distinzione che vale 500 mila vecchie lire). Storie piene di episodi che sembrano inventati e invece sono tratti dalla vita vissuta.
E qui l’invidia scatta, irrefrenabile. Avere quelle vite lì, quello spirito là, quella capacità di chiudere in una battuta fulminante situazioni paradossali. Avere quei colori, quel lessico, quella forza invece della grigia banalità di una vita qualsiasi. Invidia, dunque. Con una grande compensazione. Perché alla fine, secondo il mio Kindle ho trascorso una decina di ore su questi due testi. Perdendomi tra le righe, facendo il pieno di parole e ricordi. Ed è stato bello. Anzi, bellissimo. Perché alla fine, quasi più di quello che le due signore hanno vissuto, vale la loro capacità di vedere il raccontabile nel tessuto delle loro vite. Brave dunque, anzi bravissime. E pazienza per quel resto solforoso di invidia che mi rimane attaccato. Giusta. Anzi, sacrosanta. Prevale un grazie dal profondo del cuore per ciò che hanno saputo condividere, mettendo sotto la lente d’ingrandimento se stesse e le loro famiglie.