Le cose stanno così: il referendum sui profughi appena concluso in Ungheria non ha alcun valore legale perché ha votato solo il 45% degli aventi diritto. Eppure il premier Orban minaccia: non ci fermeremo, la volontà del popolo sovrano è chiara. Non so quanto chiara possa essere la volontà di un elettorato per il 55% ha disertato le urne. Ma la politica ha le sue leggi, questo lo so bene. È rimasto a casa il 55% degli elettori perché a) in questa Ungheria il dissenso non è gradito e dunque non conviene esporsi; b) gli elettori (teorici) non hanno sufficiente interesse per il tema; c) non vogliono perdere il grande tavolo dell’Europa che offre diversi vantaggi all’Ungheria. Infatti il governo non propugna una rottura totale, gli basta non occuparsi degli stranieri che premono sul confine. Ci saranno altre spiegazioni, ma io mi fermo qui.
Mi ha comunque dato parecchio da pensare il tono acrimonioso delle persone intervistate a Budapest sull’accoglienza dei rifugiati. Un’autentica ondata di nevrastenia all’idea che questi mostruosi stranieri possano deturpare lo spirito magiaro e annacquare la forza nazionale. E dire che questa antipatia, questa paura, sono suscitate da 1300 profughi (mille trecento) che l’Europa vuole imporre ai poveri ungheresi che alla fine, comunque, sono dieci milioni. Non sono forte in matematica, ma penso di non sbagliare dicendo che ogni dieci mila magiari l’Europa – che cattiva – chiede di inviare uno straniero. Sarebbe troppo? Io non lo credo, ma io sono fuori e non conto. Mi pare comunque che davanti all’esiguità dei numeri ci sarebbe quasi da sorridere se la vicenda non fosse così drammatica. Capisco che l’estraneo faccia paura e capisco pure che gli ungheresi di oggi abbiano totalmente dimenticato che nel 1956 migliaia di compatrioti (duecento cinquanta mila) hanno lasciato la patria schiacciata sotto il tallone sovietico e hanno cercato accoglienza altrove. Certo, quelli che sono rimasti a casa non devono necessariamente simpatizzare con gli espatriati, la simpatia è invece un obbligo per la mia famiglia. Perché noi siamo fuggiti (prima del 1956 a dire il vero, ma il concetto è quello) e nessuno ci ha preso a scapate in faccia. Certo, venivamo in Italia – il paese della mia mamma – ma se ci fossimo trovati contro un Matteo Salvini and Co., non avremmo avuto la stessa fortuna.
E ora? Qual è il senso di questo commento? In realtà mi viene da rileggere il mio libro “La promessa del tramonto” per scoprire sotto la maschera di una Ungheria felce e paciosa, brividi assai inquietanti. E per quanto riguarda i profughi contestati, mi domando umilmente: non basterebbe appellarsi a qualche briciola di buon senso?